TEORIA X E TEORIA Y DI McGREGOR

Da sempre avrete sentito parlare del dilemma bastone vs carota o, in termini più professionali, di stile autoritario vs empowerment.

Ma forse non sapete che questi concetti sono stati ben delineati già da Douglas Mc Gregor in quelle che sono diventate due pietre miliari del people management, ovvero la Teoria X e la Teoria Y.

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In questo articolo parleremo quindi di stili di leadership, di clima aziendale, di motivazione – compresa la formula di Vromm, concetto di ruolo e della Teoria Z di Maslow e William Ouchi.

Douglas McGregor  fu docente di psicologia sociale ed Industrial Management ad Harvard ed al MIT (Massachusetts Institute of Technology). Parallelamente all’attività di insegnamento, fu consulente per organismi governativi e grandi corporate.

E’ ricordato per il suo grande contributo alle scienze sociali , grazie agli studi sul comportamento organizzativo focalizzati sul “fattore umano”  in azienda.

Fu autore di:

The professional Manager
Leadership and Motivation
e The Human Side of Interprise in Italiano L’aspetto umano dell’Impresa, libro di cui parleremo in questo articolo.

I suoi sforzi furono orientati alla definizione dei “requisiti dei dirigenti”, o, più in generale, dei manager, con il fine di trovare la teoria più adeguata alla direzione aziendale.

I suoi studi lo portarono alla conclusione che le teorie e le pratiche delle organizzazioni influenzano la formazione dei dirigenti.

“E’ il modo in cui un’azienda viene diretta che determina in misura preponderante quali individui sono dotati di un <<potenziale>> e come questo si può sviluppare.

Senza assolutamente minimizzare l’importanza del lavoro di selezione…non abbiamo imparato abbastanza sulla utilizzazione dei talenti e sulla creazione di un clima all’interno dell’organizzazione che faciliti lo sviluppo umano.

L’aspetto umano dell’impresa è un tutto unico…[nel senso che] i presupposti teorici sul controllo delle proprie risorse umane determinano totalmente il carattere dell’impresa.

Naturalmente, si tratta di un processo circolare, che offre la possibilità per un futuro miglioramento.

La domanda da porre all’alta direzione è: <<quali sono i vostri presupposti sul modo più efficace per dirigere le persone?>>”.

INDICE

1] Leadership
Leaderhip ai tempi di McGregor
Leadership secondo McGregor: le leggi della natura e gli aspetti del “ruolo”
Leader si nasce o si diventa?
2] Clima organizzativo – cultura organizzativa – psicologia della Gestalt
3] Le teorie di McGregor
Teoria X di McGregor: approccio tradizionale basato su comando e controllo
4] Motivazione
Excursus sulle teorie sulla motivazione
Motivazione: effetto denaro
5] Teoria Y di McGregor: integrazione tra obiettivi individuali e organizzativi
La Teoria Y in pratica
Rischi della Teoria Y – effetto Babbo Natale
Rischi della Teoria Y – la partecipazione
6] Conclusioni
7] Dalla Teoria X e Teoria Y alla Teoria Z
Maslow On Management e il preludio della Teoria Z
La teoria Z di William Ouchi
…Per riassumere

1] LEADERSHIP

Prima di parlare della visione della leadership secondo McGregor, vi voglio proporre una definizione degli stili di leadership secondo Daniel Goleman – psicologo e giornalista statunitense – ed una matrice che correla relazione e delega con gli stili di direzione, influenza, delega, e collaborazione.

1 – Stile visionario
La leadership visionaria prevede una linea direttiva che mira a condividere gli obiettivi e la mission aziendale con i dipendenti, per far sì che si crei una sorta di ‘sogno condiviso’.
Il leader visionario è colui che in un particolare e delicato momento di cambiamento riesce a creare un clima positivo in azienda; è colui che riesce a identificare una direzione chiara e che allo stesso tempo riesce a farla visualizzare anche al proprio team.
Lo stile risulta efficace se adottato da un ‘capo’ carismatico, sicuro di sé, empatico e, soprattutto, credibile.

2 – Stile democratico
Un leader democratico è in grado di valorizzare i propri collaboratori attraverso il coinvolgimento degli stessi nelle decisioni aziendali.
Il punto forte di questo stile è insito in un’operatività ‘partecipativa’ che tende a responsabilizzare ogni dipendente verso il raggiungimento degli obiettivi.
La linea ‘democratica’, in linea generale, è finalizzata alla valorizzazione dei singoli e delle relative competenze; comporta pertanto notevoli vantaggi in termini di produttività.
Presupposti indispensabili affinché la linea risulti efficace l’esperienza e un buon livello di affiatamento dello staff, nonché ottime capacità di comunicazione del leader.

3 – Stile coach

L’obiettivo principale di un leader coach è quello di creare una connessione tra la mission dell’azienda e quelli che sono i desideri e i bisogni del lavoratore. Il coaching mira a far emergere le potenzialità di ogni singolo membro del team per migliorarne le performance ai fini del raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Goleman presuppone per l’efficacia di tale ‘strategia’ la presenza di lavoratori motivati, dotati di spirito d’iniziativa e predisposti a crescere professionalmente.
Anche in questo caso è importante la credibilità del ‘capo’, l’empatia e la predisposizione ad aiutare gli altri senza trasformarsi in una sorta di manipolatore.

4 – Stile esigente

Focalizzatissimo sull’obiettivo, l’esigente è colui che risulta estremamente determinato e pertanto, spesso, poco empatico.
Il manager in oggetto è una persona che ama il successo e che di conseguenza esige perfezione e rapidità dai propri collaboratori.
Goleman mette in guardia il leader esigente: il rischio di minare le dinamiche di gruppo e di far sentire il team inadatto è piuttosto concreto.  Il modo migliore per evitare che ciò accada è dare il buon esempio mettendosi in gioco in prima persona.
Altri presupposti affinché lo stile porti i suoi frutti sono l’esperienza del capo e un buon livello di affiatamento dello staff.

5 – Stile armonizzatore/affiliatore

Perfetto per creare armonia in un gruppo di lavoro, questo stile si focalizza sulla relazione.
Si tratta di un approccio che tende a prevenire ed evitare i conflitti tra i singoli componenti di un team.
Non è difficile intuire che tale tipologia di leadership presuppone ottime capacità relazionali e comunicative, indispensabili per lo sviluppo di una connessione tra le persone.
La linea direttiva risulta particolarmente adatta in quelle situazioni di stress e/o crisi in cui la motivazione vacilla a discapito delle performance.

6 – Stile autoritario

Quasi non ci sarebbe bisogno di descriverlo: si tratta, molto semplicemente, di uno stile che tende verso la coercizione.
Il capo autoritario impone la propria vision, esige rispetto, non ammette repliche e non accetta fallimenti.
Non è difficile comprendere che un approccio così rigido, autorevole e autoritario porta alla creazione di un clima teso e di un’atmosfera di generale infelicità e insoddisfazione; il tutto notoriamente controproducente ai fini di una produttività di qualità.
Goleman consiglia di adottare lo stile ‘militare’ soltanto in casi di estrema emergenza o di crisi.

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Proviamo a riassumere le parole chiave, cosa troviamo?
vision, mission, coinvolgimento, desideri, bisogni, potenzialità, motivazione, obiettivi, senso di inadeguatezza, relazione, conflitti, coercizione, produttività.

LEADERHIP AI TEMPI DI McGREGOR

Possiamo asserire che all’epoca di Douglas McGregor la parola d’ordine nell’organizzazione aziendale fosse una sola: controllo.

Gli unici modelli di relazione dell’epoca erano Chiesa ed esercito, gerarchie rigide basate sull’autorità.

Si pensava, infatti, che “in qualsiasi professione il progresso è legato alla capacità di prevedere e di esercitare il controllo”. Poiché la mission del management era l’organizzazione dell'”energia umana” in funzione degli obiettivi economici, il suo successo dipendeva dalla capacità, appunto, di prevedere ed esercitare il controllo sul comportamento umano. Magari il leader delega, ma solo in maniera apparente, perché, in realtà, non si fida e controlla.

LEADERSHIP SECONDO McGREGOR: LE LEGGI DELLA NATURA E GLI ASPETTI DEL “RUOLO”

Douglas McGregor era però avanti rispetto ai tempi e si rese conto della necessità di tener conto delle leggi di natura. Il comportamento umano non era materia inerme e plasmabile a piacimento, ma organismo vivo e reattivo. Pertanto era necessario considerare che un mancato allineamento tra disposizioni e risultati potesse derivare dai metodi di controllo.

Inoltre all’epoca si pensava che la sola leva motivazionale fosse il guadagno. Gli studi dell’epoca come i più recenti dimostrano che non è così. Ma ne parleremo nel paragrafo sulla motivazione.

Cosa basilare è che McGregor si accorse che non c’è solo il guadagno ma anche il consenso, e che non necessariamente il primo implica il secondo.

Douglas McGregor riconsiderò inoltre il concetto di “ruolo”. Un capo riveste diversi ruoli: è il capo di qualcuno, subordinato di qualcun altro, collega, coach, osservatore, controllore, mentore e allievo. Il tutto dipende dalla situazione e ad ogni situazione corrisponde un diverso atteggiamento, azione, comportamento.

– Quello del capo è un ruolo flessibile, e la flessibilità dipende dalle aspettative che il team ripone in lui. Possiamo dire che, a seconda della situazione, dovrà tenere un atteggiamento che spazia tra il visionario e l’autoritario, tanto per utilizzare le definizioni di Goleman viste prima. –

LEADER SI NASCE O SI DIVENTA?

Le vecchie teorie erano concordi sul dire che leader si nasce e, addirittura, skills e caratteristiche della leadership sarebbero ereditarie.

Successivamente gli psicologi sociali hanno studiato caratteristiche personali e comportamenti dei “leader”.

Secondo McGregor è impossibile definire uno schema di base delle caratteristiche personali e comportamentali  dei dirigenti e che quelle essenziali differiscono notevolmente a seconda delle circostanze.
Anche all’interno dello stesso settore, circostanze diverse richiedono caratteristiche di leadership differenti (es reparto vendite, finanza, produzione, ecc).

Non è detto che un buon capo reparto sappia essere un buon presidente.
Spesso però hanno successo nella stessa posizione persone con caratteristiche molto diverse. A volte punti di forza e debolezza si compensano.

Sono sempre necessarie integrità, ambizione, capacità di giudizio.

Molte caratteristiche essenziali si possono acquisire, come planning, problem solving, comunicazione, senso della responsabilità, coltivare relazioni sociali.

In ogni caso, la  leadership è sempre relazione e ci sono 4 variabili importanti:

1 le qualità del leader
2 atteggiamenti, esigenze, caratteristiche personali dei “subalterni”
3 caratteristiche dell’organizzazione: scopo, struttura, natura delle operazioni da compiere
4 ambiente sociale, economico, politico

Le caratteristiche personali per poter agire in modo efficace come leader variano a seconda degli altri fattori => la leadership non è una proprietà dell’individuo bensì il risultato di una relazione complessa tra tali variabili

Il vecchio dilemma se sia il dirigente a fare la storia oppure il contrario, viene risolto da questo concetto. Entro certi limiti, entrambe le affermazioni sono vere.

La relazione tra il dirigente e la storia è un circolo vizioso. La struttura organizzativa e la linea d condotta, per esempio, vengono stabilite dalla direzione e pongono limiti alle azioni direttive accettabili per l’azienda. Possono comunque sopraggiungere cambiamenti es. cambi al vertice, variazioni di mercato, variazioni legislative. Ed inoltre i valori sociali, le condizioni economico politiche, lo standard di vita, il livello di istruzione.

Consideriamo che interfacciarsi con lavoratori in un paese in via di sviluppo è ben diverso che farlo in una grande azienda di un paese industrializzato, così come sono ben marcate le differenze tra start-ups e aziende “storiche”.

Non è vero che qualsiasi individuo, in una determinata situazione, può diventare un dirigente di successo.

Ma il successo nella leadership non dipende dal possesso di un insieme di caratteristiche e qualità innate valido per tutti. Sembra piuttosto che la capacità potenziale di esercitare la leadership (considerando l’enorme varietà di situazioni per cui si richiede abilità nella direzione) sia diffusa tra la popolazione  più di quanto si creda.

E’ più aderente alla realtà considerare la leadership come una relazione tra il dirigente e la situazione, piuttosto che come un insieme di caratteristiche possedute da poche persone.

Risultano molto importanti esperienza e le qualità direttive che possono essere acquisite e, pertanto, non sono caratteristiche innate dell’individuo.

Queste considerazioni aprono la strada agli studi sul clima organizzativo o cultura organizzativa che sono appunto incentrati sul ruolo dei capi.

Voglio proporvi un excursus sul clima organizzativo attraverso le teorie di Lewin, Argvris e Schein.

2] CLIMA ORGANIZZATIVO – CULTURA ORGANIZZATIVA – PSICOLOGIA DELLA GESTALT

Il concetto di clima organizzativo ha radici piuttosto lontane e in particolare
agli studi condotti da Kurt Lewin sulle dinamiche di gruppo (1939) e al filone psicologico della Gestalt. Gestald in tedesco significa forma ed è una corrente di pensiero incentrata sui temi della percezione e dell’esperienza.

Gestalt è dunque una combinazione strutturata di singole percezioni derivanti da relazioni ed esperienze maturate dalle persone nelle organizzazioni.

Il significato che le persone attribuiscono ad un insieme di esperienze specifiche rappresenta “il clima” ed il clima influenza il comportamento sociale

Per arrivare a questa conclusione, Lewin effettuò degli “esperimenti”: alcuni gruppi di giovani vennero “sottoposti” a diversi stili di leadership, autoritario, democratico e laissez-faire. Gli studi rilevarono che i giovani sottoposti ad uno stile democratico manifestavano una maggiore propensione alla collaborazione e più elevati livelli di partecipazione.

Sua è la famosa Teoria del Campo, secondo la quale ogni oggetto non può intendersi se non in relazione al contesto nel quale è incluso.

“il tutto è più della somma delle sue parti”

È a questo approccio che dobbiamo il riconoscimento del principio applicato alle scienze sociali che“il tutto è più della somma delle sue parti”: ciò che percepiamo non è una somma di elementi, ma una sintesi della realtà nel suo insieme. Famoso è l’esempio della melodia: quando la ascoltiamo non percepiamo le singole note, ma il suo insieme.

Dalla Teoria del Campo e da quella “il tutto è più della somma delle sue parti” risulta chiaramente che il clima influenza la performance.

 

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Chris Argyris è stato professore emerito alla Harvard Business School, teorico della “Learning Organization” (“organizzazione che impara”).

A lui si deve una prima visione strutturata di organizational climate, identificata attraverso tre diverse componenti:

− politiche, procedure e posizioni organizzative;
− fattori personali, che fanno riferimento alla sfera dei valori, bisogni e capacità dei singoli;
− l’insieme di variabili associate agli sforzi degli individui per conformare i propri fini con quelli dell’organizzazione;

L’insieme di queste componenti consente la definizione di organizational behavior ovvero il risultato dell’interazione dei livelli individuale, formale, informale e culturale.
In parole più semplici, come le persone agiscono all’interno di una organizzazione e come questo comportamento influenzi le performance dell’organizzazione stessa.

Edgar Schein è stato uno psicologo statunitense di origine svizzera docente di  Psicologia e Gestione Organizzativa allo Sloan School of Management del MIT.

La sua principale teoria si basa sulla costruzione di relazioni d’aiuto. egli sosteneva che evitare gli squilibri di potere porta a una base di fiducia e promuove lo sviluppo organizzativo.

Secondo Schein, la cultura di impresa ha tre livelli: gli artefatti, i valori dichiarati e gli assunti taciti condivisi . Per artefatti si intendono  strutture visibili. I valori dichiarati sono le strategie, gli obiettivi e le filosofie di un’azienda.  Gli assunti taciti condivisi che coincidono con le ragioni storiche del successo di quell’azienda.

In un’organizzazione, la cultura è la cosa più importante, e studiarla significa analizzare l’organizzazione stessa.

La cultura aziendale è l’elemento fondante dell’organizzazione e la sua natura è dinamica.

Il leader crea fiducia tramite domande e ascolto attivo. E questo agevola anche la comunicazione.

IL CLIMA DELLA DIREZIONE AZIENDALE SECONDO McGREGOR

Le persone vogliono un capo “giusto”, cioè imparziale e accettano anche un atteggiamento duro, direttivo, se capiscono che il quel momento serve.

Un giusto trattamento genera fiducia, il sospetto di non potersi fidare crea ansia.

L’interessamento nei confronti dei dipendenti deve essere sincero.

I dirigenti sono responsabili del clima aziendale.

L’autorità deve corrispondere alla responsabilità.

3] LE TEORIE DI McGREGOR

Le due teorie di Douglas McGregor sono due pietre miliari del management. Descrivono due atteggiamenti opposti, uno basato su comando e controllo (Teoria X) ed uno basato su integrazione tra obiettivi individuali ed organizzativi (Teoria Y)

TEORIA X DI MCGREGOR: APPROCCIO TRADIZIONALE BASATO SU COMANDO E CONTROLLO

Questa teoria si basa su tre assunti:

1 L’uomo medio ha un’evidente ripugnanza per il lavoro e, se possibile, ne fa a meno.
La natura umana avrebbe la tendenza ad evitare il lavoro. Deriva da Adamo ed Eva che amavano stare tranquilli nell’Eden.

2 A causa della caratteristica umana di evitare il lavoro, la maggior parte delle persone deve essere costretta, controllata, comandata, minacciata di punizioni, allo scopo di far sì che realizzi uno sforzo adeguato per il conseguimento degli obiettivi dell’organizzazione.
La ripugnanza per il lavoro è più forte delle ricompense. Ne chiederebbero sempre di più senza comunque ricambiare con l’impegno necessario.

3 L’uomo medio preferisce essere diretto, cerca di evitare la responsabilità, ha ambizioni scarse, desidera la sicurezza sopra ogni cosa.
Le masse sono caratterizzate da mediocrità

Secondo questa teoria l’uomo è un essere passivo, avverso al lavoro, alle responsabilità, mediocre e senza ambizioni.

E questo era un po’ il filone di management in voga all’epoca (e mai del tutto abbandonato, direi).

Come si trattano le persone descritte come sopra? con il controllo.
Per controllo si intende: coercizione fisica – e in contesto aziendale spero proprio non sia esercitata- e poi
persuasione (attraverso consultazioni e discussioni)
assistenza (consulenza ovvero l’autorità del sapere)

su queste ultime due, invece, c’è qualcosa da dire.

L’efficacia dell’autorità come mezzo di controllo dipende dalla capacità di rafforzarla con la punizione, per esempio limitazioni nella crescita professionale o licenziamento. Naturalmente ci sono contromisure, da parte dei lavoratori, come atteggiamenti sabotanti (diminuzione della produttività, aumentare i tempi, commettere errori, rifiuto di accettare responsabilità, sciopero,….). Ciò evidenzia l’aspetto della interdipendenza di tutti i soggetti dell’organizzazione, non solo tra staff e linea.

 

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Il rapporto di “dipendenza” viene vissuto male perché visto come limitante e le influenze subite arbitrarie e ingiuste.

Come si potrebbe definire il lavoratore ritratto in questa Teoria X? Verrebbe da dire che è caratterizzato essenzialmente da mancanza di motivazione, che ne pensate?

Prima di proseguire con la Teoria Y che, come potete immaginare è contrapposta alla Teoria X, è interessante fare un excursus proprio sulla motivazione, per rivedere la sua definizione, le varie interpretazioni e addirittura come calcolarla, tramite la formula di Vromm.

4] MOTIVAZIONE

Al centro di ogni teoria di people management c’è la motivazione perché è la motivazione che condiziona la performance.

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Ma vediamo alcune definizioni di motivazione:

“Insieme di processi psicologici che provocano nascita, direzione, persistenza di  azioni volontarie dirette verso un obiettivo” (Kreitner e Kinicki – 2004)

“Complesso processo delle forze che attivano, dirigono e sostengono il comportamento nel tempo” (Avallone – 1994)

Energia investita nella relazione tra individuo e organizzazione, orientata verso finalità di definizione e consolidamento del legame di appartenenza (Quaglino – 1999).

In queste definizioni, possiamo individuare gli elementi chiave della motivazione che possiamo rappresentare così:

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Fig.1 Motivazione – fonte unikore.it

Cosa spinge le persone a darsi da fare?
Cosa vogliono realmente le persone?
Da cosa dipende la motivazione sul lavoro?

EXCURSUS SULLE TEORIE SULLA MOTIVAZIONE

Abraham Maslow

Questa è la celeberrima Piramide di Maslow in cui vengono elencati, secondo un ordine strettamente gerarchico che sale dal basso verso l’alto, i bisogni umani. Quando il più basso (il più basilare) viene soddisfatto, l’individuo percepisce quello immediatamente superiore.

Vedremo in seguito come questa teoria venne confutata da Frankl.

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Fig.2 Piramide dei bisogni di Maslow

Frederick Herzberg

Frederick Herzberg è stato uno psicologo statunitense esperto in direzione aziendale. È famoso soprattutto per aver introdotto il concetto di job enrichment (letteralmente “arricchimento delle mansioni”). Consiste nel rendere le attività più complete e meno routinarie, con più autonomia e responsabilità) e la teoria dei fattori igienico-motivanti. Secondo questa teoria, i bisogni secondari di stima e autorealizzazione della Piramide di Maslow, sono legati a due ordini di fattori:

“Igienici” quelli senza capacità motivante, legati a cause di insoddisfazione come controllo, politica aziendale e retribuzione non adeguata
“Motivanti” quelli generanti soddisfazione e motivazione, come senso di realizzazione, responsabilità, crescita e riconoscimento.

Herzberg chiama i fattori elencati sopra “Motivanti” proprio perché forieri di una motivazione intrinseca, pertanto le attività lavorative dovrebbero sempre presentare una certa difficoltà che consenta al lavoratore di sfidare progressivamente le proprie capacità.

Da queste premesse, si potrebbe quasi dedurre che le teorie di Herzberg siano state di forte ispirazione per McGregor.

Viktor Frankl

Viktor Emil Frankl è stato un neurologo, psichiatra e filosofo austriaco che sfata le teorie di Maslow.

Durante la sua permanenza in campo di concentramento, egli maturò l’idea dell’analisi esistenziale. Nella sua opera “ Alla ricerca di un significato della vita” spiega che la motivazione suprema dell’essere umano è sentirsi “significativo” altrimenti si sente frustrato nell’universo valoriale.

Una “vita significativa” per Frankl è una vita ricca di compiti; dove il compito è una sfida alla nostra capacità di rispondere ad un problema nella convinzione di poterlo risolvere. In questo tipo di vita, l’individuo trova l’opportunità di raggiungere la libertà, libertà di agire sfruttando le proprie risorse, anche se ciò “comporta uno sforzo” anzi “proprio perché comporta uno sforzo”. La differenza più grande tra la sua teoria e quella di Maslow sta nel fatto che, per Maslow, i bisogni sono ordinati secondo una scala: solo quando il più elementare viene soddisfatto, entra in gioco il bisogno posto al livello superiore.

Per Frankl, memore della sua esperienza in campo di concentramento, invece, quando i bisogni più bassi non vengano soddisfatti, un bisogno più alto, “quale la volontà di significato”, può diventare il più urgente di tutti. 

 David McClelland

David McClelland è stato uno psicologo statunitense.

Nel suo saggio The Achieving Society individua tre fattori motivazionali presenti in ogni essere umano:

successo
affiliazione
potere

Il carattere personale dipende dal fattore predominante. Secondo la teoria dei bisogni di McClelland, questi tre fattori sono appresi, da qui il nome di teoria dei bisogni appresi

LA FORMULA MOTIVAZIONALE DI VROOM

Victor Vroom – psicologo canadese esperto di leadership e processi decisionali –  nella sua Teoria delle aspettative, utilizza, per spiegare e far funzionare il suo modello, tre concetti:

-La sequenza comportamentale, cioè il corso di un’azione che tende verso un certo obiettivo
-La ricompensa, ossia l’ammontare dei benefici, che si ottengono raggiungendo un certo obiettivo
-La motivazione, intesa come l’insieme di energie mobilitate per la messa in atto dell’azione

dove

Motivazione = Valenza x Aspettativa x Strumentalità

Valenza è il valore attribuito al risultato da raggiungere e la conseguente in/soddisfazione.
E’ diversa da individuo a individuo ed è dinamica nel tempo, ovvero cambia.

L’aspettativa è proporzionale all’efficacia del proprio contributo nel raggiungimento dello scopo.
Le persone che hanno un alto senso di autoefficacia, hanno aspettative più alte.

Strumentalità è la relazione sforzo/ricompensa.

L’individuo, tenderà ad assegnare un alto coefficiente a questa variabile se convinto che i premi verranno assegnati in modo equo ed oggettivo.

Tutti i fattori possono essere positivi, negativi, o nulli, a seconda del valore attribuito dall’individuo

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Fig.3 Formula di Vromm

MOTIVAZIONE: EFFETTO DENARO

L’effetto del denaro non è tanto il valore economico in sé, quanto la differenza di posizione sociale che comporta.

secondo la Teoria X, il denaro è lo strumento principale con cui la direzione esercita la sua autorità perché ritenuto lo stimolo principale del comportamento umano. L’azienda lo impiega per ottenere consenso.

Ma quando il lavoratore raggiunge un tenore di vita soddisfacente, o più che soddisfacente, ( sono soddisfatti i primi due livelli della piramide di Maslow), il lavoratore sentirà la necessità di soddisfare le esigenze del gradino superiore della piramide (finisce la fase bastone/carota).

Abbiamo visto che il livello di vita è fattore che fa diminuire il grado di subordinazione dei dipendenti, quindi è un’arma a doppio taglio.

la fissazione della retribuzione è cosa ardua poiché la quantità di denaro necessaria dipende dal mercato, dalla contingenza, dal costo della vita, dalla mansione e, sostiene Mcgregor, dal contributo apportato dal singolo individuo.

La retribuzione deve essere equa rispetto ai parametri di cui sopra. Altrimenti il lavoratore, pur accentando il lavoro, sarà ostile e tenderà a ridurre la produttività in una sorta di compensazione.

Il meccanismo dell’incentivo: + rendimento = + retribuzione
Un’equità ragionevole si è ottenuta per mezzo di programmi di valutazione  delle mansioni e di classificazione delle retribuzioni.

Il dipendente va ascoltato in merito al suo percorso di crescita (aspirazioni, obiettivi, esigenze,…). Il limite delle strategie aziendali hanno il limite di non adattarsi allo sviluppo dei lavoratori (status, istruzione, gradi di dipendenza,…).
C’è necessità di conoscere e sviluppare le potenzialità della persona.
Probabilmente ha ragione Frankl quando dice che il bisogno di significato è indipendente da altri bisogni.

Il seguente report dell’epoca di McGregor evidenzia i fattori motivazionali degli americani del tempo

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I risultati sembrano essere coerenti sia con la Teoria Y di McGregor,- che vedremo tra poco – sia con il Salary Satisfaction Report 2020 realizzato da Job Pricing in collaborazione con Infojobs Italia.

Lo studio ha evidenziato come gli Italiani siano molti insoddisfatti delle proprie retribuzioni: su una scala da 0 a 10 saremmo soddisfatti 3,7 valore in peggioramento dal 2016.  E’ emerso, inoltre, che oltre il 65% del campione intervistato cambierebbe lavoro a fronte di una maggiore retribuzione.

Appare chiara la necessità dei lavoratori di percepire una retribuzione proporzionale al proprio apporto ai risultati aziendali.

MA dal sondaggio emerge anche che i lavoratori sarebbero disposti a rinunciare a parte della retribuzione in cambio di percorsi formativi e che le relazioni interpersonali  e la possibilità di carriera acquistano sempre più peso tra le priorità dei lavoratori.

Questa è la risultante classifica di

FATTORI PER LA SCELTA DI UN POSTO DI LAVORO

  1. Relazioni interpersonali positive con capi, colleghi e collaboratori
  2. Retribuzione fissa
  3. Training e formazione / Possibilità di sviluppo di carriera
  4. Il contenuto del lavoro (attività interessanti, importanti, con mansioni ricche)
  5. Flessibilità orari – Work Life Balance
  6. Essere parte di un’organizzazione con una missione di valore per i clienti e per la società
  7. Benefit / Welfare – servizi ai dipendenti
  8. Ambiente di lavoro (spazio, location, arredamento, ecc.)
  9. Retribuzione variabile individuale
  10. Retribuzione variabile aziendale contrattuale (es. contratto di  livello x e/o premio di risultato)
  11. Altri premi non monetari (esempio: viaggi, gadget tecnologici, buoni benzina, ecc.)
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Fig.4 Salary Satisfaction Index https://www.economymag.it/gestire-l-impresa/2020/04/09/news/i-soldi-non-fanno-la-felicita-il-total-reward-si-13699/

Perciò, evidentemente, in passato come oggi, la retribuzione è solo uno dei fattori motivazionali, e non è nemmeno il più determinante.

Veniamo ora alla Teoria Y

5] TEORIA Y DI McGREGOR: INTEGRAZIONE TRA OBIETTIVI INDIVIDUALI E ORGANIZZATIVI

Secondo la teoria Y non c’è una correlazione diretta tra soddisfazione del dipendente e produttività.

Si basa sulle seguenti premesse:

1 Il dispendio di sforzi fisici e mentali durante il lavoro è cosa naturale quanto lo svago o il riposo
A seconda delle condizioni, il lavoro è fonte di soddisfazione oppure una condanna

2 Il controllo dall’esterno e la minaccia di sanzioni non costituiscono gli unici mezzi per indirizzare gli sforzi verso gli obiettivi dell’organizzazione. L’uomo può esercitare l’autodisciplina e l’autocontrollo in funzione degli obiettivi in cui è coinvolto

3 L’impegno nel perseguire determinati obiettivi è in funzione delle ricompense associate al loro conseguimento
La soddisfazione di sé e l’esigenza di autoaffermazione, possono conseguire direttamente dallo sforzo volto al perseguimento dell’organizzazione

4 L’uomo medio impara, in condizioni opportune, ad assumersi responsabilità.
La fuga dalle responsabilità, la rinuncia all’ambizione e le scelte di sicurezza, non sono caratteristiche della natura umana

5 La capacità di sviluppare un alto grado di fantasia, l’inventiva e la capacità creativa nella soluzione dei problemi dell’organizzazione, si trovano ampiamente distribuite fra gli esseri umani e non sono rarità

6 Nelle attuali condizioni di vita aziendale, le potenzialità intellettuali dell’uomo medio vengono utilizzate solo parzialmente

Il ritratto del lavoratore, è molto differente da quello della Teoria X. Qui troviamo concetti come impegno, autodisciplina, ambizione, gli stessi che abbiamo visto nel paragrafo sulla motivazione.

A differenza della Teoria X, queste ipotesi implicano il concetto di progresso e miglioramento, potenzialità, di “adattamento selettivo” piuttosto che il controllo assoluto.

L’organizzazione aziendale viene sfidata a scoprire  come rendere operativo il potenziale umano. Se la responsabilizzazione è scarsa, l’autodecisione e l’autocontrollo del lavoratore sarà limitata.

Dal confronto delle due teorie, vediamo come la Teoria X si basi su direzione e controllo e la  Teoria Y, invece, sulla creazione di un contesto in cui le persone possano raggiungere i propri obiettivi nel miglio modo, indirizzando i propri sforzi al successo dell’impresa.

Gli obiettivi individuali e quelli aziendali non sono antitetici ma possono essere conseguiti contestualmente.

Vediamo contrapposte indipendenza e dipendenza di cui vi propongo, nella immagine seguente, i pro e i contro:

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LA TEORIA Y IN PRATICA

McGregor prevedeva l’applicazione della Teoria Y attraverso 4 fasi:

1 chiara definizione dei requisiti della mansione
il “capo” dovrebbe approcciarsi al lavoratore con questo atteggiamento:
..vorrei discutere con te le tue opinioni sulla tua posizione, dimmi tu cosa bisogna fare, non aspettare che sia io a darti i compiti. Non considerarmi il tuo capo ma un collega con più seniority che è a tua disposizione…

Insomma porta il lavoratore a ragionare con la sua testa, a trovare soluzioni e idee. I propri “subordinati” sono cervelli pensanti da far crescere.

Il lavoratore deve assumersi responsabilità ma il capo lo deve supportare, così che trovi nel suo lavoro uno stimolo, si renda conto delle sue capacità, potenzialità ed anche dei propri limiti

2 determinazione di obiettivi particolari per ridotti periodo di tempo
Si parla di obiettivi lavorativi e personali. Prevede la programmazione degli obiettivi e delle loro fasi, ogni unità deve indicare quale sarà il suo contributo.
Si prevede una responsabilità correlata con l’impegno.

 3 definizione del processo di direzione durante tali periodi

4 valutazione dei risultati e feed back

RISCHI DELLA TEORIA Y – EFFETTO BABBO NATALE

Molti vedono nell’applicazione della Teoria Y il rischio dell’effetto Babbo Natale, ovvero di eccedere nelle “concessioni” le cui richieste diventerebbero sempre maggiori.

Si può rispondere a questo timore dicendo che l’opposto di controllo assoluto non è mollezza o disfattismo, ma il raggiungimento di un giusto equilibrio che porti al vantaggio di tutti, compresi gli scopi aziendali.

E, come diceva McGregor, un direttore ha sempre la responsabilità di sapere cosa succede, anche se delega.

RISCHI DELLA TEORIA Y – LA PARTECIPAZIONE

La partecipazione è uno dei concetti più fraintesi.

Alcuni la considerano come una panacea con cui eliminare disaccordi e contestazioni.

Altri la considerano una forma di abdicazione da parte della direzione aziendale, creante una direzione debole, perdite di tempo, perdita di efficienza e riduzione della dinamica della direzione aziendale.

Per altri ancora è un accorgimento per convincere le persone ad eseguire i loro ordini deludendone le aspettative di autonomia. Sarebbe una forma di strumentalizzazione così sottile da farli aderire all’iniziativa che il dirigente ha pensato per primo, facendogli credere che sia farina del loro sacco. Sarebbe un modo di far sentire (fintamente) importanti le persone e quindi uno strumento motivazionale.

La partecipazione non è una formula magica o una panacea né una forma di strumentalizzazione.
E’ il fatto di prendere parte attiva a una attività e funziona se:

c’è fiducia da parte della direzione nelle possibilità dei dipendenti, consapevolezza di una dipendenza verso il basso, evitare le conseguenze negative del porre l’accento sull’autorità personale.

Il grado di partecipazione ideale non è mai lo stesso perché dipende da svariati fattori come i problemi da risolvere, le attitudini e le precedenti esperienze dei lavoratori, la capacità dei dirigenti e il loro atteggiamento.

Può essere necessario indicare con chiarezza i limiti entro cui egli si attende che essi influiscano sulla decisione.

Alcuni dirigenti non vedono dicotomia tra la partecipazione e le prerogative della direzione. Altri invece vedono la partecipazione solo in termini di grave indebolimento del controllo direttivo.

Nella realtà sembra che chi più vuole conservare le prerogative della direzione, più fa fatica a conservarle.

La partecipazione è un caso particolare della delega e facilita l’integrazione perché il lavoratore può scoprire la soddisfazione che proviene dall’affrontare problemi e trovarne soluzioni. Comporta un forte senso di indipendenza e il piacere di esercitare controllo sull’andamento delle cose.

Infine ci sono le soddisfazioni che provengono dai riconoscimenti per i propri contributi.

Serve per dimostrare alle persone come possano  soddisfare le proprie esigenze operando nel modo più opportuno per gli obiettivi dell’azienda.

6] CONCLUSIONI:

meno punizioni ≠ abdicazione leadership

più punizioni = più ostilità, meno qualità, meno efficienza

meno punizioni ≠ persone più efficaci (problem solvers)

perché il problem solving deriva da:

+ commitment
+ self control
+ supporto
+ decisione nella gestione di conflitti e nel prendere decisioni

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L’uomo manifesta tendenza ad associarsi, ma l’organizzazione aziendale tende a ostacolare questa atteggiamento. Attualmente questa concezione è stata superata concetto di sinergia 1+1=3

Al di sopra delle esigenze di socialità ci sono ci sono le esigenze di stima da dividersi in due tipi:

A considerazione di sé (rispetto, fiducia, autonomia, considerazione)
B reputazione (posizione sociale, apprezzamento, rispetto, ammirazione)

finché non si soddisfa il livello più basso, non si sale nella piramide. E chi sta nelle posizioni aziendali più basse, difficilmente riesce a salire nella piramide.
Sul gradino più alto della piramide di Maslow ci sono le esigenze di autorealizzazione, legate alle aspirazioni, alla realizzazione del proprio potenziale. E queste sono spesso inconsce.

La privazione di tutte le esigenze ha ripercussioni sul comportamento, come ostilità, passività, rifiuto di accettare responsabilità, atteggiamenti che, invece, vengono attribuiti alla natura umana.

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Questi concetti vennero fatti propri da Joseph Scanlon, famoso per Il piano Scanlon che è una filosofia di direzione aziendale molto simile alla Teoria Y.

Si applica all’intera organizzazione aziendale e si basa sul principio di integrazione.

Il risparmio viene in parte redistribuito ai dipendenti in forma di percentuali dei loro stipendi.

Questo metodo ottiene un consenso sincero perché viene ritenuto equo. Promuove la collaborazione e la coesione, prevede partecipazione effettiva:
ogni persona è una risorsa e le sue conoscenze e abilità, utilizzate in modo appropriato, contribuiscono al successo dell’azienda e il lavoratore ne verrà gratificato.

Produttività non è produrre di più ma + efficienza

La partecipazione va resa accessibile a tutti, le relazioni tra gruppi migliorano perché mirano a un obiettivo comune, le discussioni accalorate  sono incentrate sui problemi e non sono di tipo gruppo-contro-gruppo.
La dirigenza pone fiducia nei lavoratori e l’esercizio dell’autorità diventa persuasione, argomentazioni, esami collettivi della situazione e delle esigenze.

La produttività è aumentata nonostante il fatto che i programmi individuali di incentivazione siano stati abbandonati.

Allego un report in cui sono indicati in maniera sinottica i risultati e tempi ottenuti da due gruppi, il gruppo “conventional”, che possiamo associare alla Teoria X, ed il gruppo “composite”, che possiamo associare alla Teoria Y.

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Fig.5

7] DALLA TEORIA X E TEORIA Y ALLA TEORIA Z

Gli studi di McGregor propongono due teorie antitetiche che generano risultati altrettanto discordanti.

Dalla tabella in Fig.5 risulta chiaramente che la Teoria X è quella che dà risultati peggiori, ma è corretto dire che sia sempre sbagliato applicarla?

Dalla stessa tabella vediamo che la Teoria Y è quella che fornisce una performance migliore, ma è corretto dire che sia sempre il metodo migliore? E siamo sicuri che sia sempre applicabile?

Possiamo dire che una sia assolutamente sbagliata e l’altra assolutamente giusta?

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In fondo, McGregor stesso asserisce che la leadership è (anche) figlia delle circostanze, che necessita di modulazione.

-Siamo sicuri che, oltre alle varie teorie non sia necessario un metodo che rappresenti il giusto equilibrio, quello più adatto a quella determinata circostanza?-

Riflettè su questi punti anche Maslow.

MASLOW ON MANAGEMENT E IL PRELUDIO DELLA TEORIA Z

Come sappiamo, Abraham Harold Maslow è stato uno psicologo americano. Deve la sua fama alla piramide dei bisogni, detta appunto Piramide di Maslow, che abbiamo visto nel paragrafo sulla motivazione Fig.2.

Tra i suoi vari lavori voglio ora parlare del testo Maslow on Management uscito con il titolo Eupsychian Management: A Journal. Qui parlava della teoria eupsichiana (che significa muoversi verso la salute psicologica o l’autorealizzazione) e la definiva modello ideale per le organizzazioni industriali.

Riporto alcune riflessioni presenti nel libro:

Le sole persone felici che io conosco sono quelle che lavorano bene a ciò che considerano importante

Sinergia è una cultura in cui ciò che è beneficio per l’individuo è beneficio per tutti

La dicotomia tra egoismo e altruismo è risolta e trascesa e prende forma in una nuova unità superiore: questo deve essere fatto da accordi istituzionali in modo che quando perseguo le mie gratificazioni egoistiche automaticamente aiuto gli altri, e quando cerco di essere altruista automaticamente aiuto gli altri e quando cerco di essere altruista, automaticamente mi ricompenso e gratifico

In una situazione di fratellanza, ogni persona è trasformata in un partner piuttosto che in un impiegato

Se il lavoro è senza significato allora la vita diventa quasi senza significato

La persona creativa è in grado di essere flessibile; può cambiare rotta al variare della situazione

Insomma, la Teoria Z di Maslow parte dal presupposto che la persona, una volta raggiunto un livello di sicurezza economica, si adopererebbe per una vita intrisa di valori, una vita lavorativa dove la persona sia in grado di creare e produrre.

La copertina di Fortune America (marzo 1998) intitolata Yo, Corporate America-I’m the New Organization Man, riporta i bisogni ed i desiderata dei “gold collar worker”: un lavoro ben pagato, piacevole, cool, che permetta  di scoprire chi sono realmente.

Il lavoro non riguarda più il pagare dell’affitto, ma l’autorealizzazione

LA TEORIA Z DI WILLIAM OUCHI

William Ouchi è un docente e autore americano nel campo della gestione aziendale.

Nel 1981 definì quella che viene conosciuta come Teoria Z nel libro  Teoria Z : come l’ American Management può affrontare la sfida giapponese

La Teoria Z si basa su

occupazione di lungo termine -processo decisionale collettivo – responsabilità individuale – valutazione & promozione lente – controllo informale ed implicito, con misure formalizzate ed esplicite – percorsi di carriera moderatamente specializzati – preoccupazione olistica per l’impiegato, compresa la sua famiglia.

Secondo Ouchi la natura competitiva del sistema americano sarebbe in definitiva controproducente e legò i principi americani ad un approccio più orientato alla comunità presa da imprese giapponesi.

Una società che opera in base al principio di Teoria Z ha tutti i suoi dipendenti a lavorare in armonia verso un obiettivo comune, anche se i lavoratori individuali all’interno della società hanno ancora la possibilità di distinguersi.

La relazione positiva tra dirigenti e lavoratori posti da Theory Y rimane, ma fa un passo avanti girando tutta l’azienda in un unico, gruppo unificato. Permette anche per tutte le decisioni che comportano per l’azienda da effettuare su base consensuale.

La teoria Z è un modello integrato di motivazione. Suggerisce che le grandi organizzazioni complesse sono sistemi umani e la loro efficacia dipende dalla qualità dell’umanesimo usato. Un’organizzazione di tipo Z ha tre caratteristiche principali: fiducia, sottigliezza e intimità.

La fiducia reciproca tra i membri di un’organizzazione riduce i conflitti e porta al lavoro di squadra.
La sottigliezza richiede sensibilità verso gli altri e produce una maggiore produttività.
L’intimità implica preoccupazione, sostegno e disinteresse disciplinato.

Le caratteristiche distintive di Theory Z sono le seguenti:

1 Fiducia reciproca:
Secondo Ouchi, la fiducia, l’integrità e l’apertura sono ingredienti essenziali di un’organizzazione efficace. Quando esiste fiducia e apertura tra dipendenti, gruppi di lavoro, sindacati e dirigenti, i conflitti sono minimi e i dipendenti cooperano pienamente per raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione.

2 Legame forte tra organizzazione e dipendenti:
Si può ottenere concedendo un impiego a tempo indeterminato che porta alla lealtà nei confronti dell’impresa. In caso di crisi gli azionisti potrebbero rinunciare ai dividendi per evitare licenziamenti.

E’ necessario favorire il movimento orizzontale (job rotation) che riduce la stagnazione. Una pianificazione della carriera dovrebbe essere fatta in modo che ogni dipendente sia posizionato correttamente. Ciò comporterebbe un ambiente di lavoro più stabile e favorevole.

3 Coinvolgimento dei dipendenti:
Il coinvolgimento dei dipendenti in questioni che li riguardano direttamente migliora il loro impegno e le loro prestazioni. Il coinvolgimento implica una partecipazione significativa  al processo decisionale. La partecipazione genera un senso di responsabilità e accresce l’entusiasmo. I Top manager servono come facilitatori piuttosto che come responsabili delle decisioni.

4 Organizzazione integrata:
Il focus è sulla condivisione di informazioni e risorse. Un’organizzazione integrata pone l’accento sulla rotazione del lavoro che migliora la comprensione dell’interdipendenza dei compiti che, a sua volta, porta allo spirito di gruppo.

5 Coordinamento:
Il ruolo del leader dovrebbe essere quello di coordinare gli sforzi e favorire comunicazione e scambio di opinioni.

6 Sistema di controllo informale:
Il sistema di controllo organizzativo dovrebbe essere reso informale con accento sulla fiducia reciproca e sulla cooperazione.

7 Sviluppo delle risorse umane:
I manager dovrebbero sviluppare nuove competenze tra i lavoratori, riconoscere  il potenziale di ogni persona e potenziarlo attraverso l’allargamento delle mansioni, la pianificazione della carriera, la formazione, ecc.

La Teoria Z è dunque un sistema ibrido che associa i punti di forza della gestione americana (libertà individuale, assunzione di rischi, rapidità decisionale, ecc.) e della gestione giapponese (sicurezza del lavoro, processo decisionale di gruppo, coesione sociale, preoccupazione olistica per i dipendenti, ecc.).

Durante gli anni di applicazione, la Teoria Z ha ovviamente messo in luce dei limiti:

la garanzia di un contratto a tempo indeterminato, sorta per sviluppare un forte legame tra organizzazione e dipendenti, potrebbe non riuscire a motivare i dipendenti con esigenze di livello superiore. Potrebbero adagiarsi sugli allori, diventare inefficienti, abbandonare l’azienda per una offerta migliore e non sviluppare lealtà

La partecipazione dei lavoratori al processo decisionale presenta difficoltà. I manager possono non gradire la partecipazione ritenendo minate la loro leadership e la loro libertà.
D’altro canto i lavoratori potrebbero essere riluttanti a partecipare per timore di critiche e mancanza di motivazione. Sedersi insieme alla direzione non significa necessariamente contribuire fattivamente, ammenoché non comprendano i problemi e prendano l’iniziativa.
Inoltre il coinvolgimento di tutti i lavoratori può anche rallentare il processo decisionale.

La Teoria Z suggerisce un’organizzazione senza alcuna struttura. Ma questo potrebbe creare caos, poiché nessuno saprebbe chi è responsabile di cosa e verso chi.

Difficoltà di sviluppare una cultura comune nell’organizzazione a causa di differenze in atteggiamenti, abitudini, lingue, costumi, ecc.

La teoria Z è troppo imperniata sullo stile giapponese e questo ne rende difficile l’applicazione in culture diverse.

In conclusione, anche la Teoria Z non è assolutamente risolutiva dei problemi motivazionali e organizzativi, anche se resta una filosofia di gestione da cui prendere vari spunti.

…PER RIASSUMERE

in pillole:

non c’è solo il guadagno ma anche il consenso e non sempre coincidono

il “capo” incarna diversi ruoli

la leadership implica un diverso atteggiamento a seconda delle circostanze

la  leadership è sempre relazione

la leadership non è una proprietà dell’individuo bensì il risultato di una relazione complessa tra diverse  variabili

l’autorità deve corrispondere alla responsabilità

un direttore ha sempre la responsabilità di sapere cosa succede, anche se delega

l’opposto di controllo assoluto non è mollezza o disfattismo, ma il raggiungimento di un giusto equilibrio che porti al vantaggio di tutti, compresi gli scopi aziendali

Il significato che le persone attribuiscono ad un insieme di esperienze specifiche rappresenta “il clima” ed il clima influenza il comportamento sociale

“il tutto è più della somma delle sue parti”

Formula della motivazione di Vromm:

produttività non è produrre di più ma + efficienza

Assunti della Teoria X e della Teoria Y messi a confronto:

patrizia-agostinis-operations-management-unovirgolasei-teoria-x-teoria-y-mcgregor-tabella-comparazione

Siamo sicuri che, al di là delle varie teorie non sia necessario un metodo che rappresenti il giusto equilibrio, quello più adatto a quella determinata circostanza?

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